Con il permesso di blasonati economisti, e tenendo conto delle nostre finalità
di semplice divulgazione, ci azzardiamo a definire, in termini stringati, la
globalizzazione come un fenomeno complesso di carattere economico, sociale,
tecnologico e culturale.
I principali aspetti della globalizzazione infatti possono essere ricapitolati
in:
1. scambi economici di beni e servizi tra tutti i Paesi del mondo;
2. distribuzione e riallocazione delle opportunità produttive tra i diversi
Paesi;
3. utilizzo di sofisticate tecnologie GPS per lo per la gestione informatica di
dati e comunicazioni;
4. diffusione di modelli similari di produzione e consumo, di organizzazione
politico-amministrativa, di norme di diritto commerciale e doganale e di
gestione delle monete nazionali, cioè di “modelli culturali omogenei”.
Alcuni osservatori hanno cominciato a usare il termine “globalizzazione” attorno
al 1980; ma il fenomeno attuale è solo un momento transitorio di un processo
lunghissimo che si intreccia, nel bene e nel male, con la storia della nostra
stessa civiltà. Tale processo è stato definito, nel corso dei secoli, con nomi
diversi e inizia con la nascita delle prime città e dei primi codici di leggi
per regolare i rapporti tra individui, con l’affermazione del concetto di Stato
nazionale, e con le scoperte scientifiche e tecnologiche che hanno contribuito
allo sviluppo economico, con l’introduzione di monete e banconote per consentire
gli scambi di merci tra persone o tra Paesi diversi, e arriva fino ai nostri
giorni.
Il percorso non è stato tuttavia idilliaco: basta aprire un qualsiasi libro di
Storia per notare quanto esso sia disseminato di guerre, conflitti, rivoluzioni,
genocidi, persecuzioni etc. etc., specie
nel continente europeo, dove maggiormente si sono concentrati sia le capacità di
innovazione e sviluppo economico e sociale, sia i motivi di conflitto tra i
diversi Paesi.
Ai nostri occhi, dopo quasi 65 anni di ininterrotta “pace”, sembra inverosimile
che i nostri nonni siano andati a farsi massacrare a colpi di zagaglia per
conquistare un pezzo di savana somala, o che in quarantamila giovani siano morti
sul Carso solo per liberare Gorizia. Ma andando indietro nel tempo ci si accorge
che non c’è generazione che non abbia dovuto combattere una guerra mondiale o
coloniale, di liberazione, di secessione o di riunificazione, di religione o di
credo politico, di conquista o di resistenza, per un vessillo o per una casata,
per l’imperatore Romano o per quello del Giappone e così via.
Sembra forse strano al lettore, che si parli di guerra in un articolo sulla
globalizzazione, ma il nesso tra economia e guerra è molto stretto: dietro una
guerra coloniale o dietro una guerra di liberazione nazionale si celano i forti
interessi economici di gruppi ed elites
che intendono sfruttare le risorse di questo o quel territorio; anche le guerre
cosiddette di “religione” come le Crociate del medioevo, venivano poi finanziate
dalle potenze commerciali dell’epoca che ambivano al controllo del trasporto via
mare. Gli esempi non mancano, ed anche il lettore può immaginare dei raffronti
con le guerre dei nostri giorni.
Oltre 70 milioni di persone rimasero vittime, civili e militari, dell’ultima
guerra mondiale “calda”, che fu sospesa
solo dall’impiego nel conflitto delle armi atomiche!
Fu in questo clima di sanguinoso sterminio che alcuni statisti, economisti e
politici imbastirono le grandi linee di un sistema che potesse tentare -tentare- di ridurre la conflittualità
tra i vari Paesi e disinnescare per lo meno le cause economiche di quei processi
capaci di riportare il mondo ad una nuova carneficina bellica.
Questi statisti ritennero che per evitare le guerre derivanti da interessi
confliggenti, le economie dei vari Paesi dovevano essere rese interdipendenti,
interconnesse, intercomunicanti; gli scambi di merci e servizi dovevano essere
agevolati e sostenuti; le monete dovevano essere rapportabili tra loro secondo
un sistema di cambi negoziati, le condizioni di lavoro dovevano essere
equiparate e parificate; le partecipazioni incrociate tra grandi banche e grandi
imprese di Paesi diversi dovevano essere favorite, come pure i processi di
internazionalizzazione della produzione. Un’organizzazione internazionale,
l’ONU, fu istituita per rappresentare tutti i Paesi, e tre agenzie, Fondo
Monetario Internazionale, Banca Mondiale, ed Organizzazione per il Commercio
Mondiale, furono incaricate di curare la parte economica e finanziaria del
progetto.
Tutto ciò, ed altri dettagli, fu concordato, nel 1944, in una località del New
Hampshire chiamata Bretton Woods; iniziò così quella fase del processo che oggi
definiamo “globalizzazione”, e che ha consentito il più lungo periodo di pace,
progresso scientifico e sociale, espansione economica e benessere diffuso come
mai nella storia dell’umanità.
Tuttavia anche la globalizzazione è una forma edulcorata di guerra ed ha le sue
vittime: le innovazioni tecnologiche e dei processi produttivi hanno fatto
chiudere molte antiche fabbriche generando, negli ultimi anni, milioni di
disoccupati in alcuni Paesi; il libero commercio internazionale introduce
prodotti a basso costo da Paesi in via di sviluppo generando nuove crisi
economiche e chiusura di aziende. In vari Paesi emergenti in cui esisteva ancora
la schiavitù o la segregazione razziale o sessuale o il sistema delle caste
chiuse, si ritrova ora il sistema dello sfruttamento dei minori in fabbrica,
come accadeva nell’Europa del 1800; in altri Paesi bande di approfittatori
instaurano regimi “democratici” a conduzione paramafiosa per sfruttare i loro
stessi popoli; altri popoli sono rimasti nell’abisso delle carestie e delle
epidemie ed infine non sono mancati tanti conflitti regionali: Corea, Viet-nam,
Angola, Afganistan, Palestina etc., e anche crisi finanziarie in cui grandi
affaristi hanno perso grandi capitali. Oltre a tutte queste vittime della
globalizzazione bisogna considerare che l’espansione industriale degli ultimi 40
anni ha prodotto vari guasti all’ecosistema, e cambiamenti nel clima mondiale.
Il sistema quindi non è perfetto: però ci siamo salvati dall’olocausto nucleare
(…per il momento).
Fernando D’Antonio per salernoplus.it (-riproduzione riservata- …….segue)