In un precedente articolo intitolato “La guerra della globalizzazione” si è tentato
di dare una definizione di globalizzazione, individuando anche un momento
istituzionale a cui far risalire l’inizio del fenomeno ovvero gli Accordi di
Bretton Woods nel 1944.
Anche se al nostro lettore questi temi possono apparire lontani (dov’è
Bretton Woods?), essi sono in realtà direttamente connessi con il
nostro tenore di vita, con i nostri consumi, con gli stipendi e le pensioni, con
il lavoro presente e con il futuro dei nostri figli e vedremo come.
L’Italia fu ammessa a partecipare alle istituzioni derivanti dagli Accordi di
Bretton Woods (FMI, Banca Mondiale e GATT -ora WTO-) nel 1947, e, come gli altri
Paesi che aderirono al Fondo Monetario Internazionale, accettò molti nuovi ed
impegnativi obblighi di carattere economico e finanziario, che misero “sotto
monitorizzazione”, tra l’altro, l’emissione di titoli di Stato, la quantità di
moneta circolante e il livello del debito pubblico, le tariffe doganali
all’importazione ed esportazione, i rapporti di cambio tra la lira e le altre
valute, le modalità di compilazione dei bilanci pubblici etc. etc.
Iniziò così per il nostro Paese la “pace della globalizzazione”: le merci potevano
essere importate ed esportate da e verso tutto il mondo, la lira italiana poteva
essere scambiata con le altre valute, le borse valori potevano trattare titoli
esteri, le banche potevano aprire filiali in altre nazioni, le industrie
acquisire e vendere brevetti internazionali, il Ministero del Tesoro poteva
emettere e vendere titoli di Stato agli investitori esteri.
Dopo oltre un ventennio di sanzioni internazionali ed autarchia l’Italia adottò il
liberismo come linea guida della propria economia e la cooperazione
internazionale come modalità di approccio alla soluzione dei possibili conflitti
di interessi.
L’adozione di politiche di deficit spending per finanziare la ripresa dell’economia
interna, la partecipazione a organismi economici come la CECA (Comunità
economica Carbone ed Acciaio), l’Euratom (comunità per l’energia atomica), e poi
all’area di libero scambio di beni e servizi, CEE, contrassegnarono la
reindustrializzazione ed il miracolo economico degli anni ’60.
Elettricità, acqua potabile, telefono in tutte le case! Frigoriferi, lavatrici,
televisioni ed autovetture erano alla portata di tutti! Vaccinazioni gratuite,
istruzione pubblica fino all’Università, previdenza sociale e pensionistica,
mutui a tasso agevolato per acquistare la casa, ed espansione del credito al
consumo, ampliarono il benessere diffuso a tutte le classi sociali, dando
concretezza alle promesse del liberismo economico.
Ma mentre la pace della globalizzazione cominciava a rendere
opulenti alcuni Paesi altri fenomeni
si ingeneravano nell’economia mondiale.
·
I Paesi socialisti o
con regimi autarchici, non avevano aderito agli accordi di Bretton Woods, non
potevano importare o esportare liberamente i loro prodotti, le loro monete non
venivano riconosciute al cambio internazionale, le loro economie privilegiavano
gli investimenti in infrastrutture o armamenti, il sistema bancario e
finanziario era antiquato o ininfluente, e restavano fuori dal rapido
incrementarsi dei consumi di massa delle economie liberiste.
·
Le grandi imprese
industriali, favorite dall’interdipendenza economica e dal libero commercio,
incrementavano il processo di internazionalizzazione della produzione, si
installavano in Paesi poveri o in via di sviluppo, adattando le economie di
questi Paesi ai loro scopi privati. Le multinazionali della frutta o del
petrolio o del trasporto, della pesca e della distribuzione, cominciarono ad
avere molto più potere ed influenza dei Governi di molti Paesi. Il bilancio
consolidato di una multinazionale delle bevande gassate poteva superare
ampiamente quello di vari Stati messi assieme.
·
L’espansione dei
commerci, degli investimenti e dei consumi di massa aveva reso insufficiente la
massa di denaro liquido circolante nel mondo: le monete non potevano più essere
riferite alle quantità di oro detenute dalle Banche Centrali; nel 1971, per
ultimo, anche il dollaro fu dichiarato non più convertibile in oro. Le monete e
gli altri titoli di credito sarebbero stati garantiti dai Bilanci dei singoli
Stati e dalla fiducia reciproca degli Stati tra loro. Ciò diede inizio al
processo di espansione del credito internazionale e degli “strumenti finanziari
complessi” gestiti da cartelli bancari e assicurativi di respiro mondiale.
Questo periodo di pace della globalizzazione è stato definito come la “guerra
fredda”, durante il quale battaglie economico-finanziarie si sono alternate a
quelle politico-sociali, conflitti economici sono stati trasformati in rivolte
generazionali o di genere, contese ideologiche tra modelli di governo sono state
affrontate con gli strumenti del marketing e della pubblicità, fino a quando, il
modello di società più adatto alla specie umana si è affermato -per nostra
fortuna, senza un conflitto nucleare- con la caduta del muro di Berlino, il
collasso dei sistemi ad economia socialista e la “svolta” ideologica del Partito
Comunista Cinese.
Il modello vincente si afferma in tutto il pianeta, milioni e milioni di persone e
nuovi mercati entrano nel gioco: gli ex Paesi socialisti, gli ex paesi in via di
sviluppo (India, Indonesia e Cina, circa 3 miliardi di persone…) riguadagnano a
grandi salti il tempo perso: è l’epoca della globalizzazione conclamata che
ancora oggi viviamo.
Ma uno spettro si aggira per il pianeta ed ha le sembianze della progressiva
concentrazione delle ricchezze in pochi Paesi e nelle mani di poche persone
ultraricche. Dai dati ONU del 2004 si rileva che il 13% della popolazione dei
Paesi ricchi riceve il 45% della ricchezza del pianeta. Ma ancora più
impressionante è che l’1% delle persone possiede da solo il 40% dell’intera
ricchezza del mondo.
Intanto banchieri, tycoon e megamanagers internazionali hanno ampiamente sostituito
o rese obsolete, le classi politiche, ed hanno un illimitato potere sulle sorti
del mondo e sul nostro personale destino. Gli statisti che fecero gli Accordi di
Bretton Woods ritennero che il liberismo economico sarebbe stato sufficiente a
garantire un’equa prosperità: oggi non verrebbero nemmeno consultati
sull’argomento.
Fernando D’Antonio per salernoplus.it (-riproduzione riservata- …….segue)