Una massima zen recita: “nessuna catena è
più forte del suo anello più debole”. Dopo averlo letto il concetto appare
così elementare che ci sembra di averlo sempre conosciuto e allo stesso tempo
così complesso da trovarne sempre nuove interpretazioni e applicazioni. Catena
infatti è la metafora di un qualsiasi tipo di collegamento o anche di
interconnessioni causa/effetto, tra eventi, persone, parti elementari e così
via. Anche il nostro corpo è una catena -complessa- di organi interdipendenti.
Se il nostro fegato smette di funzionare, la catena si spezza, ci ammaliamo e
poi moriamo. Anche uno Stato è una catena di Enti, Organizzazioni,
Amministrazioni, Associazioni, etc. La Comunità Europea o l’O.N.U. sono catene
di Stati sovrani, e, di catena in catena, si arriva a considerare che anche
l’intero nostro pianeta è un insieme concatenato di sistemi, alcuni “naturali”
come il sistema meteorologico o quello ecologico, altri artificiali, ovvero
realizzati dall’uomo.
In ogni caso ciò che accomuna i vari sistemi, ovvero le varie “catene” è
l’interdipendenza: il funzionamento della catena dipende dalla forza e tenuta e
funzionamento di ciascun anello. Se un anello funziona male la catena corre il
rischio di spezzarsi e il sistema va in crisi. Va da sé che più è complesso
l’organismo più sarà difficile individuare l’anello malfunzionante e nel
frattempo la “crisi” si trasmette, da anello ad anello e da sistema a sistema, e
spesso, mentre si individua un malfunzionamento e si interviene per ripristinare
la tenuta di quell’anello, la crisi si è già trasmessa ad un altro, procurando
nuovi squilibri.
È per questo che un medico vorrà fare delle accurate analisi al proprio paziente
prima di prescrivere un farmaco, e un geometra vorrà fare dei saggi prima di
intervenire su una struttura edilizia, e potrà quindi il nostro curioso lettore
immaginare con quanta circospezione si dovrà intervenire in un sistema complesso
come quello economico.
Infatti per quanto attiene al sistema economico, ovvero quella concatenazione di
produzione, scambi, lavoro, capitali, aspettative, commercio, proprietà,
bisogni, monete, titoli, obbligazioni etc.etc. i primi economisti non ritenevano
che questo dovesse essere oggetto di
interventi specifici da parte dello Stato o di altre Autorità, ma che il sistema
economico dovesse trovare il proprio equilibrio, attraverso le crisi, nella
perenne concorrenza, l’eliminazione delle “catene non adeguate” e l’affermazione
di quelle più forti.
Una diversa concezione dell’economia si contrappose a quella liberista: per
evitare che il meccanismo dell’economia liberista finisse per concentrare nelle
mani di pochi la ricchezza, era necessario che i mezzi di produzione fossero di
proprietà comune, ovvero dello Stato-nazione. Socialismo, comunismo,
nazionalsocialismo e fascismo, realizzarono modelli economici a direzione
centralizzata e pianificata, nei quali tutto era determinato da una élite di
burocrati che assoggettava i cittadini alla dittatura del proletariato, o del
fuhrer, e ai campi di lavoro forzato e/o all’esercito.
Queste concezioni dell’economia, il liberismo o il dirigismo assoluti, sono
state concause, nel corso dei secoli, di guerre, dittature, carneficine,
distruzioni, rivoluzioni, bancarotte etc. in quanto spesso le “catene non
adeguate”, ovvero gli Stati, i popoli o i semplici individui, non accettavano
supinamente la propria eliminazione o annichilimento, anzi vi si opponevano
fieramente trasferendo la competizione o la reazione dal mercato alle piazze e
ai campi di battaglia.
Risolvere le crisi economiche con un conflitto armato è stato per secoli un
toccasana per l’economia; in un sol grande falò si bruciavano -letteralmente-
sia i prodotti che i produttori obsoleti o in eccesso, classi dirigenti
inadeguate e gruppi sociali improduttivi o perniciosi, e per di più si dava
impulso all’innovazione tecnico-produttiva.
Ma la grande crisi economica iniziata negli Stati Uniti d’America nel 1929,
palesò a tutti che il modello economico vetero-liberista conteneva in sé i germi
del proprio fallimento, mentre la crisi e l’implosione, nel 1989, dei sistemi
socialisti, ratificò l’insostenibilità del modello dirigista.
Un modello economico che invece ha consentito un relativo periodo di pace e
sviluppo fu quello derivante dagli Accordi di Bretton Woods del 1944. Questo
Sistema, per la prima volta nella storia, prevedeva l’impegno dei Paesi che
aderivano all’Accordo, ad accettare una serie di norme che regolamentavano,
anche sensibilmente, la sovranità monetaria degli Stati, con il conseguente
obiettivo di introdurre principii di diritto capaci di contrastare il
laissez-faire del liberismo economico
e di finalizzare le politiche economiche al benessere comune. I politici, gli
economisti e gli statisti che sottoscrissero quell’Accordo, avevano vissuto la
crisi del capitalismo selvatico e delle economie autarchiche e
nazionalsocialiste, avevano attraversato il secondo conflitto mondiale e
intravedevano gli effetti del socialismo reale. Costoro erano consapevoli che
l’Accordo non poteva assicurare la cancellazione delle crisi o degli squilibri
economici, né garantire la democrazia politica o la felicità per i cittadini dei
singoli Stati, e, in definitiva, non poteva dare certezze sul futuro di realtà
economiche multiformi e variamente organizzate e in via di continuo mutamento.
Tuttavia compresero che il sistema di Bretton Woods introduceva il connubio tra
competizione e cooperazione, tra libertà d’impresa e monitoraggio delle
attività, tra libertà di scambi commerciali e regolamentazione dei rapporti
economici e monetari tra Stati, e all’interno degli Stati, e si prefiggeva di
operare per il mantenimento di alcune regole condivise tra gli Stati, per
l’affievolimento degli effetti negativi di politiche economiche errate, per il
recupero e salvataggio di economie crollate o emarginate, e per la diffusione di
conoscenze e metodi di gestione economico-monetaria.
Ma senza un’adeguata manutenzione anche i migliori sistemi possono deteriorarsi
e soccombere. Dopo un trentennio dall’Accordo le nuove classi dirigenti dei vari
Stati iniziarono, sotto la spinta di forti lobbies economiche e finanziarie, una
lenta opera di elusione delle regole precedentemente stabilite. Lo sviluppo
vertiginoso dell’economia e la deregulation di vari settori economici consentì
la nascita di soggetti privati più potenti di Stati nazionali ed in grado di
determinare le politiche anche di potenze mondiali come Gran Bretagna, Francia e
USA. La deregulation, la deregolamentazione, portò, negli USA, eludendo le
limitazioni imposte dalle regole del FMI, all’abolizione delle norme -come la
legge Glass-Steagall del 1933, a ridosso della grande Crisi- che limitavano le
aggregazioni tra imprese finanziarie, bancarie, assicurative e previdenziali. In
particolare, il Gramm-Leach-Bliley Act
del 1999, legge sulla modernizzazione dei servizi finanziari, proposta
dai Repubblicani americani durante la presidenza di Clinton e votata dall’intero
Congresso, emendò la precedente normativa del 1933, consentendo così la nascita
di imprese finanziare (holding) che man mano hanno aggregato assicurazioni,
banche d’investimento e banche commerciali, fondi di previdenza e pensionistici,
società di borsa, agenzie di rating e di revisione contabile.
Il lettore che ha resistito fin qui potrà certo immaginare gli effetti di questa
norma che permetteva, per esempio, a un’assicurazione di utilizzare le proprie
entrate (premi) non per coprire i rischi assicurati ma per acquistare e vendere
azioni in borsa! Il flusso di capitali derivante da questa legge del Congresso
Americano fu così strabiliante che le nuove conglomerate USA cominciarono ad
acquisire o cedere intere banche e assicurazioni di e da altri Stati, dando
luogo alla internazionalizzazione della finanza privata.
In seguito, nel primo decennio del 2000, l’enorme flusso di capitali in cerca di
rendimenti e profitto ha finito per essere incanalato in forme sempre più
sofisticate di investimenti finanziari, gli “strumenti derivati”, i quali, in
definitiva, sono delle complesse scommesse sull’andamento di titoli di borsa,
dando luogo alle famose “bolle speculative” sui mutui casa, sul petrolio o sulle
derrate alimentari. In questi ultimi due anni invece l’attenzione di questi
operatori si è spostata sulle economie di interi Stati, con l’acquisto di
rilevanti quote di debito pubblico di uno Stato del quale valutano la
solvibilità attraverso una propria agenzia di rating, guadagnando sulle
aspettative al rialzo o al ribasso dei titoli del debito pubblico, come si
trattasse di una qualsiasi altra società commerciale, e ciò a prescindere dalle
regole di Bretton Woods e del FMI.
L’area dell’euro è al momento quella più promettente per gli speculatori in
quanto le classi politiche dei vari Paesi non sempre appaiono favorevoli al
processo di integrazione europea, e anzi sembrano a volte condividere gli stessi
interessi delle lobbies finanziarie; eppure la catena-euro non è più forte del
suo anello più debole: se cade il primo anello tutti gli altri lo seguiranno,
anche quelli che si ritengono forti.
L’attuale situazione di crisi economica e finanziaria quindi deriva dalla
mancata “manutenzione politica” delle regole e dei limiti che dovrebbero
moderare la competizione ultraliberista di enti privati che operano potentemente
in campo finanziario e monetario.
In questo ultimo campo la gran parte del sistema privato sfugge leggi o
regolamenti e quindi la finanziarizzazione dell’economia risulta altamente
informale, un miscuglio di diversi elementi, un ingranaggio mezzo regolamentato
e mezzo selvatico di cui una parte è rappresentata da istituzioni finanziarie
basate su norme nazionali, altra parte consiste di Enti internazionali quali il
FMI e la BCE, ed altra parte ancora esiste sotto forma di conglomerate private i
cui Tycoons operano secondo usi commerciali e strumenti finanziari ad alto
rischio… impiegando capitali altrui.
Per il lettore preoccupato dall’economia -e che ha avuto la pazienza di seguirci
fin qui- possiamo offrire, in attesa di riprendere il tema, solo un nuovo spunto
di meditazione:
Un giorno un discepolo chiese al guru
dell’economia: “Maestro, per evitare la crisi è meglio un’economia liberista o è
più efficace un’economia pianificata?”. Il Maestro lo guardò affabile e gli
rispose: “Anello di questa catena la crisi è”. E tornò a meditare.
Fernando D’Antonio
per salernoplus.it